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(di Simone Perotti)

“Sai che a fondare il sionismo è stato uno scrittore?”. Abraham Yehoshua mi guarda e fa una pausa impercettibile, ma quando vede che io non faccio alcun gesto di assenso, prosegue sereno. È così il grande scrittore israeliano, probabilmente il più famoso vivente. Semplice, disponibile, curioso. È salito a bordo di Mediterranea con qualche piccolo disagio, ma a oltre 81 anni si muove ancora con una certa circospetta agilità. “Israele deve molto alla letteratura se è vero che i suoi primi ideatori, come concetto stesso di uno stato a cui tornare dalle varie diaspore, erano scrittori. Lo era Theodor Herzl, diciamo una sorta di nostro Garibaldi, giornalista, giurista, scrittore ungherese, che teorizzò che nei territori coloniali mediorientali inglesi nascesse lo stato di Israele. Lo era Vladimir Žabotinskij, scrittore e soldato, grande oratore, padre del concetto di autodifesa degli ebrei. Dunque siamo stati immaginati da scrittori, e questa è una cosa che trovo affascinante e evocativa”. Si diverte a parlare, Yehoshua. “E poi la nostra lingua, che consegue a un’opera di rinnovamento dell’antico ebraico, che stava morendo, ed è diventata lo strumento principale della nascita dello Stato di Israele. Vedi che siamo un popolo molto letterario”.

Yehoshua è affascinato dalle idee di un Mediterraneo Unito che gli ho scritto qualche mese fa, e di cui entusiasta mi parlò nella nostra prima telefonata. Il nostro dialogo va subito dritto al punto. “Io? Io mi sento, sono mediterraneo. La mia identità è mediterranea, come quella del mio Paese. Noi non siamo mediorientali, siamo mediterranei”. Mi affascina il suo entusiasmo su questo argomento, come se un lungo pensiero precedente trovasse finalmente il proprio interlocutore in ascolto. “Ci unisce un universo di cose in comune, ma soprattutto il concetto di civiltà, di civilizzazione, che viene da una profonda stratificazione culturale. Anche i palestinesi sono mediterranei, ognuno di noi porta con sé la mitologia di questo mondo”.

Parlare con un grande scrittore, tradotto e invitato in tutto il mondo, per di più ottuagenario, è una garanzia di libertà del pensiero. Yehoshua può dire quello che vuole, e lo sa. Mi vengono in mente i giovani musicisti di Beirut, intervistati pochi giorni fa, e al loro misurato equilibrio, la loro attenzione a non esporsi con affermazioni recise. Qui sono di fronte a un ottantenne che non ha alcun problema a dire le cose in modo chiaro, diretto, se serve ruvido, ma senza alcun istinto polemico.  Occorre che l’Italia si incarichi di fare da mediatore, coordinatore, organizzatore di un processo di unione del Mediterraneo. Anche la Spagna, certo, e volendo anche la Grecia, ma soprattutto l’Italia. Il tuo Paese deve guardare a sud, è lì il nuovo orizzonte, lì sta la nuova frontiera”. Io annuisco con un sorriso, ma Abraham non ha finito: “Il modello c’è, certo che c’è. Rifiuto del denaro come mito, dell’ambizione come valore, di questa eccessiva e assurda globalizzazione, che rende tutto identico e per sapere in che aeroporto sei devi leggerlo da qualche parte, si somigliano tutti! E poi rispetto delle civiltà, antiche e moderne, e del significato che hanno. Gli arabi del Nord Africa, sono una civiltà importante, di cui occorre tenere grande conto. Il nostro modello sono gli USA, ma mia madre veniva dal Marocco!”. Io faccio fatica a fare domande, anche perché Yehoshua segue il suo filo e non c’è molto da fare per indirizzarlo.

L’Italia deve fare pressione su Israele perché risolva la questione dei campi, il problema palestinese, l’occupazione. Dobbiamo dare a questa gente la cittadinanza, oppure dar loro uno Stato, punto. Il problema è il rispetto delle condizioni di vita, il problema è il lavoro, e questo vale tanto in Nord Africa quanto in Palestina. Bisogna creare un ponte per agevolare, risolvere queste questioni”. Gli chiedo se Spinelli e Rossi, a Ventotene nel 1943 non fossero più utopisti di noi pensando all’Unione Europea, mentre il continente veniva raso al suolo dalle bombe. “Certo che sì! Guarda, Bruxelles ha fatto un buon lavoro, sia sull’economia, sia sul lavoro, sia sulla questione dei confini. Ma ora è debole, si sta disgregando e indebolendo terribilmente l’Europa. È il momento giusto perché il Mediterraneo possa trovare il suo spazio. E per trovarlo serve qualcuno che si faccia capofila, e questo qualcuno non può che essere l’Italia, anche la Grecia, ma è un po’ in difficoltà. L’Italia deve prendere in mano il filo di questo ragionamento”. Gli chiedo però concretamente come si possa fare: “Bisogna creare un’atmosfera, un’ambientazione, voi potete farlo perché in Italia c’è la Sicilia; greci, romani, arabi, spagnoli, tutti sono stati lì perché è un’isola, ed è al centro, e c’è un eccesso, perfino, di Bellezza. La Sicilia deve diventare la Bruxelles del Mediterraneo. Dovete prendere un po’ le distanze dall’EU e lavorare al Mediterraneo, mettere fine alla guerra israelo-palestinese, oggi Israele è uno stato molto forte, cresce, ha tanta tecnologia, tanti giovani, e poi con l’Egitto la pace regge, bisogna dialogare con la Turchia”. Un fiume in piena, che io ascolto con grande gioia. Spesso mi trovo a spiegare l’idea di un Mediterraneo unito a gente che cade dalle nuvole, e mi guarda come un alieno, ma questo di Yehoshua è un endorsement autorevole e forte a Progetto Mediterranea e a quel che stiamo facendo da qualche anno.

“Serve un promoter, per questo parlo dell’Italia. Contro il fanatismo islamico. Il Mediterraneo è pluralista, si basa sulle differenze, questa è la sua stessa struttura. Se si fermano gli estremisti possiamo trovare un modello e crescere. Lo sai perché ho così grande successo in Italia con i miei romanzi? Perché sono tutti incentrati sul concetto di famiglia, un altro tema molto mediterraneo. L’Italia ha questo tema centrale. Come per gli inglesi è il tema delle classi sociali, per i francesi il rapporto uomo-donna, per i tedeschi l’ordine e il grottesco, per gli statunitensi l’individualismo, il progetto e la frontiera”.

A questo serve la letteratura, gli chiedo, a mediare con la realtà, interpretarla? Yehoshua ora pare stanco, deve raggiungere il figlio e il nipote, sorride, e mi risponde a una domanda diversa, come ha fatto spesso durante questo dialogo: “Non ho alcuna formula per la letteratura e il suo significato. Non insegno, non do consigli, non tengo corsi di scrittura creativa come fanno molti miei colleghi. L’unico modo per scrivere al meglio di quel che si può è leggere e seguire la propria ispirazione. Io deo molto a Kafka e a Faulkner, diversissimi tra loro. Dipende anche molto da cosa vogliamo scrivere”. Lo aiuto a sbarcare, percorriamo la banchina del porto di Herzliya continuando a parlare di Mediterraneo. Ci abbracciamo vicino alla sua macchina.