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(di Simone Perotti)

Studiavo storia della fotografia, avevo diciassette anni, ero in California…”. Racconta la sua storia Aline Manoukian, fotografa Reuters, testimone della guerra degli anni ’80, personalità di spicco, anche internazionale, del settore del fotogiornalismo. “Tornai a Beirut a 19, perché la mia famiglia non ne voleva sapere che una ragazzina vivesse dall’altra parte del mondo. E mi trovai qui, in una guerra”. Racconta la sua storia professionale con onestà, senza romanzare. “Fotografa per caso, ecco come andò. Un amico della Croce Rossa mi disse se volevo andare con lui, io dissi di sì, e quando scendemmo, dopo una corsa folle con la sirena in mezzo a macerie e strade sbarrate, mi trovai tra cecchini, bombe, feriti, uno scenario incredibile. Feci delle foto. Al rientro un giornalista del Daily Star mi chiese cosa avessi nel rullino. Gli spiegai, gli mostrai le foto. Lui rimase di sasso: “Tu sei entrata nella zona proibita, dove ci sono i combattimenti e nessuno è autorizzato ad entrare!!??”. Avevo fatto uno scoop, senza saperlo”. 

Così prende avvio la carriera della fotografa di origine armena Aline Manoukian, oggi presidentessa di associazioni nazionali e internazionali, testimone di un’epoca. “Mi assunsero, e io continuai a fare foto, avevo trovato un lavoro senza cercarlo. Lavorai con l’UPI  e con la Reuters, di cui divenni referente per il Libano. Poi ci fu la stagione dei rapimenti di occidentali…” In quegli anni rapivano occidentali a ogni angolo di strada, le auto-bomba scoppiavano dovunque. Era pericoloso andare in giro. Tutti i giornalisti internazionali e i fotografi lasciarono il Paese. Ma Alina era di qui, correva i suoi rischi, ma non aveva paura. “Aspettavamo nei punti chiave della città, sperando di poter immortalare il momento del rilascio di un occidentale, dopo il pagamento del riscatto o i negoziati per liberarlo. Eravamo incoscienti…”.

Le parlo dei dubbi di Ara Guler sulla Magnum attuale, sui fotografi di oggi, sulla fine di una generazione di guerra. “Non so se sono d’accordo. Certo, all’epoca noi facevamo tre o quattro foto che dovevano raccontare la storia, serviva tempo per stampare e inviare. Oggi la digitalizzazione ha cambiato tutto. E poi i nostri interlocutori erano i quotidiani, oggi c’è un mondo, dai magazine a internet e si inviano centinaia di fotografie”. I tempi cambiano, la tecnologia anche, le guerre invece sono sempre le stesse

Le chiedo cosa fosse essere una fotografa donna in mezzo alle fucilate dei cecchini e ai posti di blocco: “Mi ha aiutato. Avevo i capelli lunghi. Poi li accorciai. Alla fine li portavo alla maschietto. Non volevo avere sconti perché era una donna. A volte un militare si avvicinava per colpirmi e solo alla fine vedeva che avevo gli orecchini e si tratteneva. Da lontano mi aveva scambiato per un uomo”.

Le chiedo del Mediterraneo. “Tutto ciò che ci unisce è bello. Bisognerebbe partire da quel che abbiamo in comune. In Libano coesistono diciotto confessioni religiose, e poi gruppi, fazioni. Apparentemente è un laboratorio di possibile coesistenza. Ma la verità è che viviamo insieme, ma non ci amiamo. Può scoppiare una guerra ogni giorno, anche solo per uno screzio tra un quartiere e l’altro. È una polveriera. Ma del resto, s’è mai visto un mondo senza divisioni e stupidità? Direi di no…”. E qui Alina comincia a offrirmi la sua visione pessimista e cinica. “Questo è un paese materialista. L’opzione che è stata colta è quella del denaro. Basta. Ma vorrei dire che qui, come altrove, il denaro ha vinto. In Francia, dove sono vissuta per 27 anni, le persone parlano del figlio che si droga, e si colpevolizzano perché non hanno fatto adeguatamente i genitori. Io chiedo: perché? Perché dovevo lavorare, non c’ero mai! Capisci che follia? La gente fa di tutto per i soldi e perde i figli. Questa è la nostra società”.

Ho perso la speranza. Il Libano è un paese in cui ognuno raccoglie i fiori che può nel giardino, strappandoli appena li ha a portata di mano. Guarda questo quartiere qui accanto: è stato costruito per mera speculazione, in questi grattacieli non vive e non lavora nessuno. È orribile come hanno ridotto questa città. Una Disneyland assurda. Hanno spianato il vecchio suq, che era bellissimo, io me lo ricordo, ci andavo con mia madre, c’erano le botteghe, ogni isolato aveva una sua specializzazione, i cordai, gli artigiani del legno, vedevi la gente che spostava le merci con le ceste. E ora è un centro commerciale ipermoderno. Una cosa inumana”. È pessimista Aline, che ci racconta di come la speculazione abbia rasato al suolo interi quartieri, che ora, come le faccio notare, non hanno piazze, non vi sia alcuna comunità che si incontra. “Hanno creato la crisi dei rifiuti, ma in verità ne vogliono sempre di più di rifiuti. La discarica enorme da quella parte viene scavata e riempita, poi la coprono e sopra ci fanno nuove speculazioni immobiliari. Solo che quella immondizia percola tutti i suoi veleni, che finiscono in mare. Avete visto in che condizioni è il mare? Tutto inquinato!” Purtroppo lo abbiamo visto, ci abbiamo navigato sopra.

“I giovani, in compenso, sono fantastici. Hanno coraggio, e idee nuove. Speriamo solo che la loro generazione, a cui quella della guerra evidentemente qualche valore deve averlo trasferito, possano costituire una base per il cambiamento”.

Sulla Primavera Araba invece, ha qualche remora nel giudizio. “Tanti movimenti, e tutti belli. Solo che qui c’è il terrore della guerra. Di fronte a ogni rischio di conflitto tutti si ritraggano. Non sarà facile che abbiano un impatto vero. E poi c’è il rischio costante di una guerra con Israele”.

Rimaniamo di sasso. Chiedo: “Adesso? ora?”. “Ma certo! Non si parla d’altro! Ogni momento è buono perché scoppi una guerra, perché veniamo invasi. Speriamo che non accada. Il rischio è continuo e concreto. Se non ci sarà un’invasione, forse, passetto dopo passetto, questo paese ce la farà”. Speriamo, certo. Quando Alina va via, siamo tutti un po’ meno speranzosi. E un po’ preoccupati.