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(di Simone Perotti)

Queste settimane non le abbiamo raccontate abbastanza, presi dal viaggio, dalla navigazione, e dai luoghi interessanti dove ci troviamo. Siamo salpati da Limassol (Cipro), con rotta su Beirut. Al porto qualcuno ci ha ammoniti: “state attenti… è pericoloso”. Ci siamo chiesti se avevamo sottovalutato qualcosa. Poi, come si deve fare quando si ha una rotta precisa nel cuore, siamo partiti. 

Il premio è arrivato subito: il bordo più bello di Mediterranea dall’inizio del suo viaggio, migliore perfino di quello che avevamo nel cuore tra Creta e Kalymnos, che pure era stato esaltante. 

Tra Limassol e Beirut 130 miglia a vela, traverso pieno, onda di due metri, sui 20 nodi di grecale. Mediterranea ha sfiorato i 10 nodi di velocità, restando sempre sopra gli 8 e per ore sopra i 9. Non uno scricchiolio, un tintinnio, uno sbattimento a bordo. Silenzio. E mare. E vento. E luna piena che ci ha fatto da canale di allineamento all’inizio, per poi sparire nella nostra scia all’alba. A Beirut i militari non si sono fatti attendere. Ci hanno intercettati in mare, dopo aver preso contatto via radio (Oscar Charlie Radio, CH16), ci hanno abbordato, un ufficiale è salito a bordo, ha perquisito sommariamente la barca per vedere se c’erano uomini o armi. Poi ci hanno dato luce verde per l’atterraggio al Saint George Marina, al centro di Beirut.

Formalità lente e lunghe, come al solito in alcuni paesi. L’ambasciata d’Italia ci ha supportato e aiutato, e credo che tutto si sia svolto bene anche per la loro intercessione. A chi è arrivato dal mare (altri ci hanno raggiunto in aereo) hanno dato un foglio con una fotocopia del passaporto e dei timbri da rinnovare ogni giorno. Uno “short-pass” come lo hanno chiamato. Solo che ci hanno trattenuto i passaporti, cosa piuttosto spiacevole. Per due settimane non lo abbiamo riavuto, tranne che per la partenza. Sopra, nessun timbro. Come non fossimo mai stati in Libano.

Siamo ripartiti da Beirut svegliandoci alle 5 di mattina, dopo un controllo a bordo dei militari e una serie di ulteriori passaggi burocratici. Abbiamo dovuto dichiarare la nostra destinazione, e a quella domanda abbiamo risposto che andavamo a Limassol, Cipro. Una bugia, dettata dalla particolare condizione di queste terre. Noi dovevamo recarci a Tel-Aviv, via Haifa, ma dire ai libanesi che vai in Israele, l’acerrimo nemico di sempre, può suonare come una provocazione. Qui, per parlare di Israele, tutti dicono “lo stato a sud”. I nomi significano, non sono solo lettere dell’alfabeto. Il consiglio di non rivelare la nostra rotta vera ci è arrivato da più parti, e poco dopo essere salpati ne abbiamo apprezzato tutta la responsabilità.

Va anche ricordato che sui forum di vela e nelle varie fonti consultate, non siamo riusciti a trovare nessuno che raccontasse di aver navigato a vela tra Beirut e Haifa. Pochissimi hanno fatto la rotta, ma spezzandola con Cipro, per creare un intervallo tra i due paesi. Tutti ci hanno detto che questa rotta diretta non era possibile. Eppure, come imbarcazione italiana, dunque libera di navigare dovunque osservando le regole, io sostenevo che potessimo invece tentare. Pochi giorni prima di salpare avevo scritto a Israeli Navy, l’autorità assoluta in mare in Israele, e loro non mi avevano detto “no”, ma dato le indicazioni di approccio. Certo, qualche apprensione l’avevamo.

Fuori dal porto di Beirut ho preso rotta diagonale per uscire dalle acque libanesi senza tirare un bordo dritto e perpendicolare, per evitare di perdere miglia e acqua. Solo che Oscar Charlie ci ha seguito sui radar, e ha iniziato a chiamarci per chiederci come mai quella rotta, visto che a loro risultava che dovevamo andare a Cipro. Per tre ore (benedette, che ci sono assai servite all’arrivo!) abbiamo spiegato che avevamo onda in prua e vento contro e che stavamo cercando di navigare al meglio per poi correggere rotta susseguentemente. Prima ci hanno assecondati, poi non più. Come si vede dal tracciato gps in foto, a un certo punto ci hanno ordinato di prendere rotta per Limassol, uscendo dalle acque territoriali libanesi per la rotta più breve. Abbiamo dovuto assecondare l’ordine.

Per non rischiare fraintendimenti, prima di riaccostare verso sud abbiamo preso due primi di longitudine. A quel punto l’accostata secca per andare a sud è stata notata. “Perché andate a sud? Limassol è a ovest!” “Siamo in acque internazionali, decidiamo noi la nostra rotta migliore”. Muoversi in punta di diritto della navigazione era possibile, naturalmente, anche se da queste parti può rivelarsi non sempre opportuno.

A quel punto le comunicazioni sono diventate più asciutte e secche. Ci hanno intimato ancora di accostare con rotta per Limassol. Fino a che, invece che Oscar Charlie (la voce ufficiale della capitaneria e della Marina, quella che da noi chiameremmo la Torre), nella comunicazione si è inserita Oscar Sierra, che non sapevamo chi fosse. La voce dall’altra parte era secca, veloce, nervosa. Prima ci hanno intimato di andare per Limassol, poi di assumere rotta 240°. A quel punto io ho avuto la certezza che stessero per raggiungerci in mare con una vedetta. Abbiamo dovuto scegliere.

Il problema, come avrete capito, era che avevamo dichiarato qualcosa che, ora, non stavamo facendo. E cosa stessimo facendo era perfettamente chiaro ai militari libanesi. È vero che avevamo dalla nostra una serie di consapevolezze, e cioè che la dichiarazione di destinazione non è vincolante, e che il comandante di una imbarcazione può modificare rotta quando vuole assecondando le sue esigenze o i propri doveri verso terzi; poi che ormai eravamo in acque internazionali, dunque la autorità libanesi non potevano imporci alcuna rotta né abbordarci. E tuttavia, come avviene quotidianamente in molte acque, in certi paesi non è opportuno sfidare o fare prove di forza con le autorità. A me dava solo molto fastidio una cosa: io volevo dichiarare fin da subito, prima di salpare, che avevamo intenzione di recarci a Tel-Aviv. Una barca italiana, che non ha alcun problema con i due stati in guerra, che non deve nascondere nulla, che non ha alcuna intenzione malevola verso nessuno, deve essere fatta transitare. Dichiarare una cosa non vera non mi piace, tanto meno in mare. E tuttavia, se così avessimo fatto, qualcuno sostiene che non ci avrebbero consentito di andare, ci avrebbero fatto storie. Non si sa. Non lo sapremo mai. Certamente, navigando al largo delle acque libanesi, convinti che presto avremmo visto un’unità della marina Libanese avvicinarsi, non siamo stati molto tranquilli. Ci siamo messi a guardare l’orizzonte, in silenzio, in trepidazione….

Dopo un paio d’ore abbiamo cominciato a rilassarci, anche se io avevo una ulteriore preoccupazione: il confine. Anche se eravamo larghi almeno quindici miglia dalla terraferma, saremmo passati verso una no-sailing-zone che tiene distanti le acque israeliane e le acque palestinesi. La marina libanese ci avrebbe intercettati lì e ci avrebbe intimato di cambiare rotta, di non attraversare il confine? Avremmo avuto all’orizzonte unità israeliane e a contatto unità libanesi? Si sarebbe creato un momento di tensione? Lo avremmo scoperto presto.

Avevamo anche un altro problema. Con Israeli Navy avevamo pattuito di chiamarli 50 miglia al largo di Haifa, poi 40 miglia, e poi a 30, dando posizione del nostro avvicinamento. I canali disponibili erano il 26 e il 16. Ma io potevo chiamarli sul CH16 facendo sentire ad Oscar Sierra che noi stavamo dichiaratamente andando in Israele, dunque non a Limassol come dichiarato? Ho scelto di non farlo. Ho provato solo sul CH26, ma senza ottenere risposta. Fatto sta che quindi ci siamo avvicinati al confine senza dare comunicazioni come stabilito. Gli israeliani vedevano una unità salpata da Beirut che si avvicinava. Per radio hanno cominciato a chiamare, ma sentivamo male, non riuscivamo a sentire latitudine e longitudine che venivano chiamate. Nel frattempo è successa anche una cosa abbastanza inquietante, che non ci aspettavamo. Due aerei da caccia, supponiamo israeliani, hanno incrociato sopra di noi lanciando dei missili aria aria, o così almeno di sono sembrati: gli aerei lasciavano dietro di loro cinque o sei sbuffetti di fumo bianco, come missili lasciati precipitare dalle ali dell’aereo che poi accendono la loro propulsione e partono. Quegli sbuffi bianchi nel cielo azzurro, visti molte volte nei documentari o nei film di guerra, erano un segnale a salve per intimarci qualcosa? Anche questo non lo sapremo mai.

A trenta miglia, ormai fuori dalle acque antistanti il Libano, ritenendo di essere fuori portata definitivamente per i libanesi, abbiamo chiamato Israeli Navy, con cui nei giorni precedenti avevamo scambiato email (anche se tutti ci avevano sconsigliato di dire per email che andavamo in Israele o di comunicare con Israele, tanto meno con la Marina) dando loro orari di partenza, di arrivo, descrizione dell’unità, nomi dell’equipaggio, passaporti etc. Per quattro ore abbiamo dovuto spiegare e rispiegare tutto, fare spelling internazionale di tutto, dalla barca, alla registrazione sulla licenza di navigazione, ai nomi, ai passaporti, età, date di nascita, luoghi. ogni cosa. Alla fine mi faceva male la gola a furia di parlare per radio. La voce di Israeli Navy era sempre femminile, e molto cortese e paziente, ma come sempre da queste parti, molto perentoria. Ci hanno indicato una rotta di avvicinamento e chiesto l’orario stimato di atterraggio.

A quindici miglia da Haifa si è avvicinata una corvetta armata, con uomo a prua seduto sul seggiolino di una mitragliatrice pensate, cannone blindato a centro unità, ma nessun militare sul ponte oltre al mitragliere (l’altra volta che ero entrato a vela qui, sul ponte ce n’erano molti e molto armati, con i fucili puntati, e il cannone blindato ci puntava dritto muovendosi a seconda delle orzate e poggiate della barca). Ci hanno girato intorno, chiesto ancora tutte le informazioni, se eravamo armati, etc. Poi ci hanno salutato e sono ripartiti a gran velocità. Ognuno ci domandava da dove venissimo. Quando rispondevamo “Beirut” calava il gelo.

Al porto di Haifa siamo arrivati con l’ultimo scampolo di luce. Ad accoglierci tre motoscafi d’altura con i lampeggiatori blu accesi, un uomo col mitra a prua, altri a poppa. Ci hanno chiamati per radio e chiesto di seguirli. Un motoscafo a poppa, uno a prua, un altro che faceva la spola. Ci hanno guidati nell’estuario di un fiume, e fatto segno di infilarci in un bacino di carenaggio. Ad attenderci, una quindicina di uomini e donne, tutti giovani, tutti armati, tutti in borghese. Ma soprattutto, tutti in assoluto silenzio. Era ormai notte fonda, senza altro che una brezza, e quel silenzio era forte, tangibile, teso. Ho avuto l’impressione chiara che fossero preoccupati, tesi, che fossero pronti, come la polizia ormeggiata sulla nostra poppa, a qualsiasi esito. Forse temevano che sotto coperta avessimo uomini armati pronti a fare una sortita. certo è che le loro facce e il loro silenzio erano molto espliciti.

Una volta messe a terra le cime è partita la lunga trafila di controlli, interrogatori a me e a qualcun altro dell’equipaggio: “chi siete, dove andate, perché siete stati a Beirut, cosa avete fatto lì, dove, quando, con chi, cosa avete comprato, come avete girato la città, in che altri posti siete andati, cosa avete a bordo etc”. Mentre ci chiedevano passaporti e informazioni la polizia è salita a bordo da sola, senza di noi, cosa che mi ha molto infastidito, anche se comprendevamo tutti la situazione e le procedure. Poi siamo saliti a bordo con i doganieri, che insieme alla polizia ha rovistato dovunque, fin dentro l’ultima taschina dell’ultima valigia vuota, dentro l’ultimo gavone. “Non avete erba?” “What do you mean grass?” “Drug!” “No”. “Come no!? Davvero?!”. Chissà perché non volevano crederci. Io ho anche fatto l’espressione come dire “no, purtroppo…”, ma senza che questo li facesse sorridere. Con un apparecchio elettronico hanno fatto il check alla barca, dentro e fuori, forse un rilevatore di esplosivi o di sostanze chimiche. Piano piano li abbiamo visti rilassarsi, poi sorridere, scherzare. Sono andati via dopo ore, ci siamo salutati con cortesia.

Quando siamo andati a dormire, piuttosto stanchi e provati per quella giornata, non abbiamo avuto il tempo di pensare a nulla. La mattina dopo, navigando costantemente in contatto radio con Israeli Navy, siamo ripartiti da Haifa e abbiamo raggiunto Tel-Aviv con maestrale tra 20 e 30 nodi. Tutto sommato, per quanto complesso e pauroso fosse entrare in porto con onda e ormeggiare con vento, credo fossimo tutti tranquilli. Ben altro ci eravamo messi alle spalle.