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(di Simone Perotti)

“Intanto devo dirvi che la vostra spedizione mi piace moltissimo. Vi ho incontrati con le solite riserve tipiche del giornalista – ‘Ah, eccone altri fissati col dialogo mediterraneo.’ – Poi quando ci siamo incontrati all’ambasciata l’altra sera, ci siamo parlati, abbiamo comunicato, e questo mi ha fatto capire che siete gente vera.”. Riporto il complimento perché ne sono orgoglioso, dunque perché nasconderlo. Ma poi con Lorenzo Trombetta, 19 anni in Medio Oriente, 11 a Beirut, entriamo subito nel vivo, anche perché il tempo per questa intervista è risicato, compresso tra i tanti impegni. Semplicità, dialogo vero, comunicazione bilaterale, sono cose preziose, anche qui in Libano. Che da questo punto di vista è un po’ una fregatura. Apparentemente tanta appartenenza, vita notturna sfrenata, donne emancipate, banche attivissime, vita moderna, sembra di stare in Europa. Poi, se alzi il tappeto, le cose sono assai diverse. In amore, nell’amicizia, la finta internazionalità, si rivela tutta la difficoltà ad aderire a quello schema apparente”.

Gli chiedo se sia un problema di identità, oscillare tra mondo arabo e occidentale, o se si tratti di uno step intermedio in un processo che certamente si compirà. “Entrambe le cose. In Libano certamente avviene una cesura con il mondo della tradizione araba. Gli altri arabi li considerano imbastarditi. Certo, non sono più simili alle loro radici e non sono ancora altro da quelle. Un amico che conosce bene il mondo arabo mi ha detto ieri che mentre in Tunisia si respira molta speranza, qui pare che nessuno ne abbia più di speranze. Vedi come questo fa a cazzotti con l’idea di laboratorio riuscito di coesistenza di cui si parla tanto. La verità è che qui nessuno ha speranza in una possibile vita migliore”. Parole grosse.

“Ma non vedi che tutti pensano a espatriare? Ti incontrano, ti dicono il meglio che possono del Libano, sembrano orgogliosi e felici. Poi dietro ti chiedono se puoi aiutarli ad avere il visto. La tensione verso l’altrove è fortissima. Il contesto qui viene percepito come asfittico”.

Chiedo a Lorenzo se non sia anche perché con tutte queste diversità che devono convivere, il rischio di fare una mossa sbagliata, che dislivelli il tutto, è alto. Lui sorride: “Anche questa storia che bisogna stare attenti a tutto altrimenti scoppia il caos, mah… mi sembra tanto un deterrente che i cinque gruppi egemoni agitano per tenere buoni i propri uomini. Ortodossi, Maroniti, Sciiti, Sunniti e Drusi, di fatto, sono i cinque poli di attrazione della comunità. Loro sono i veri stati nello Stato, in loro si esprime la vera appartenenza, che spesso è di stampo prettamente mafioso. Ti proteggono, in essi ti identifichi, ma anche in cella sei protetto, anche se di fatto sei in galera. La metafora direi che calza perfettamente”.

Torno al modello di vita libanese tra vecchio e nuovo. “Se è un passo intermedio tra prima e dopo? Voglio sperare di sì, certo ora non può dirsi compiuto neppure lontanamente. Anzi, negli ultimi dieci anni io ho assistito a un peggioramento della situazione”.

Chiedo a Trombetta del colonialismo, e del fenicianesimo. Mi conferma che dietro la questione del colonialismo si fa spesso della grande confusione. “La storia di una terra e di un popolo non la puoi valutare da un certo anno specifico in avanti, è il risultato di continui e prolungati mutamenti. Chissà cosa sarebbe successo senza il colonialismo da queste parti. E chi lo sa? Ma a che serve capirlo, visto che tutto si collega ad altro nel prima e nel dopo? Quanto ai fenici, i più evoluti ti dicono che no, non sono fenici, ma una certa corrente che si ispira al recupero delle radici storiche, anche un po’ artificiosamente, c’è e cresce. I libanesi sono certamente mediterranei, ma con molti distinguo”. Eccoci a uno dei punti che ci interessano maggiormente. Il Libano sta nella cartina dell’Asia, sugli atlanti. Eppure…

“Eppure sì, sono vocati al Mediterraneo. Anche se in realtà sono montagnardi, il monte che come una dorsale attraversa la regione da nord a sud è un centro d’attrazione. I libanesi ti dicono orgogliosamente che in un giorno possono farsi una sciata sulle nevi e un bagno a mare, ed è vero se vogliamo. Poi però vedo che la montagna ha più peso del mare nella cultura sociale libanese. Il beirutino è un dialetto che somiglia molto a quello delle montagne. La verità è che qui il mare non lo vedi e non lo senti. Beirut non è una città di mare”. Frase forte, ma che in effetti ci pare di aver già colto visitandola a lungo.

“Da ragazzo cercavo il Mediterraneo nell’arabo, fuggendo forse dalla mia provenienza. Oggi dico che anche quella europea è una matrice mediterranea inalienabile. Senza di essa non si può andare lontano col discorso del Mediterraneo Unito”.

“E chi lo può unire Lorenzo? Gli stati e le diplomazie? Non direi. Le città, forse, pensavo. Ora comincio a dubitarne. Allora chi?”

“Eh, bella domanda. A furia di dialogo e dialogo, parola ormai abusata, mi sono convinto che la società civile ha un peso essenziale. Costruire l’icona del Mediterraneo Unito serve, fa da modello, ma poi occorre metterci dentro la sostanza. Il bicchiere lo fa l’acqua che ci metti dentro. Il Mediterraneo lo unisce la comunità, lo uniscono i gruppi, da quelli come voi a quelli del clan e delle famiglie allargate. Anzi, meglio ancora e parallelamente: i progetti, quelli dedicati come il vostro, ma anche le banche che possono operare come si deve, le università che lavorano spalla a spalla, le agenzie commerciali, perfino, che mettono in relazione due mercanti sotto l’egida del rispetto reciproco e dell’ambiente. Che non ci sia un Erasmus mediterraneo, ad esempio, è vergognoso. Per lavorare davvero al Mediterraneo occorre prendere gli slogan e… riempirli”.