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(di Francesca Piro)

“Prima di essere un medico, sono stato un marinaio. E sono stato anche un naufrago, sapete? So cosa significa cadere in mare a 40 miglia dalla costa e poi essere salvato”.  Inizia così il nostro incontro con il dott. Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, responsabile del Poliambulatorio – ASP di Palermo dell’isola,  colui che ha curato centinaia di migranti arrivati dal mare e che ad altrettanti ha dato la dignità di persona, consentendone il riconoscimento prima della sepoltura. L’uomo che poi tutti abbiamo conosciuto grazie al film documentario “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi. “Da 30 anni ci occupiamo del fenomeno dell’immigrazione. Io dico fenomeno, non problema, perché è sempre esistito, da secoli. I popoli migrano, si spostano. Qui, a Lampedusa i primi migranti sono arrivati 30 anni fa ed io mi sono sempre presentato a loro prima di tutto come uomo, e poi come medico. Lo chiedo ai miei collaboratori: il primo approccio deve essere umano, e poi sanitario. Una pacca sulla spalla, un tè caldo, un batti-cinque fanno sentire queste persone – perché sono persone! – accolte, in un luogo sicuro, dove nessuno farà più loro del male. L’incontro deve essere fra uomo e uomo, indipendentemente dal ruolo che rivesti. È gente che ha sofferto, sapete? quella che arriva. Le donne, soprattutto le donne, sono quelle che soffrono di più”.

Gli chiedo quanti sbarchi ha visto. “Io sono delegato della Sanità Marittima e questo significa che qualunque imbarcazione che arriva a Lampedusa con un carico di migranti, non può sbarcare se prima io non sono salito a bordo e non ho visitato, o almeno controllato, tutti i presenti, equipaggio compreso. Sono stato presente a tutti gli sbarchi, dal 1992 a oggi, e non ho mai riscontrato una malattia grave, tale da generare allarme sanitario. Sempre e soltanto patologie legate allo stress da viaggio: ipotermia, traumi, ustioni chimiche. Le ustioni da miscela di benzina e acqua di mare – la malattia dei gommoni, la chiamo – sono terribili. Infide, silenti, colpiscono soprattutto le donne che viaggiano sedute sul fondo del gommone, dove cola la benzina durante i rabbocchi. Una volta con l’elicottero ne abbiamo trasferite 25 in codice rosso, con ustioni gravissime. Ci abbiamo messo 48 ore per trasferirle tutte”.

La voce è dolente, gli occhi sono lucidi, le rughe del volto si fanno più profonde quando racconta del naufragio del 3 ottobre 2013. “Morirono 384 persone, ma io ne conto 386 perché nel recuperare i corpi, i sommozzatori ne portarono a galla altri due in avanzato stato di decomposizione, probabilmente annegati da uno sbarco precedente. Ecco, per me i morti di quel naufragio sono sempre stati 386. Quel naufragio ha sconvolto l’isola e ha sconvolto l’Italia. Fu un punto di partenza per tutti. Bisognava fare qualcosa subito! L’Italia disse: No, basta morti – e nacque l’operazione “Mare Nostrum”. Ecco, io sono italiano, sono molto orgoglioso del mio Paese, l’Italia non ha mai alzato muri o filo spinato, abbiamo sempre accolto tutti. Lampedusa lo fa da 26 anni. E quell’operazione così controversa, inizialmente osteggiata anche dall’Europa, è stata invece la massima espressione dell’accoglienza. Ha salvato centinaia di vite. Ma con Mare Nostrum i trafficanti hanno fatto Bingo!, perché se prima  facevano traversare i migranti sui barconi in legno che portavano fino a 800 persone, guidati dagli scafisti che poi a poche miglia da terra lasciavano il timone e scappavano via in mare protetti da complici, da Mare Nostrum in avanti, i barconi sono diventati gommoni da quattro soldi, che non hanno chiglia rigida, monotubolari, cioè che affondano rapidamente se si fa un piccolo buco. Caricano 120-130 persone, tutti ammucchiati.

Ho visto tanti morti, così tanti che per me a volte sono degli incubi. Ho fatto oltre mille ispezioni cadaveriche che hanno consentito i riconoscimenti, per dare almeno un nome a quelle persone, dare un’identità a un corpo significa dargli dignità. E ogni volta per me è sempre peggio. Sto male.”

L’atmosfera a bordo è tesa esofferta, mentre il dott. Bartolo prosegue e ci racconta dei bambini, di Favour, la bambina che tutti abbiamo visto fra le sue braccia sul molo Favaloro, sua madre era morta durante il viaggio e prima di morire l’aveva affidata ad un’altra donna. “L’ho rivista dopo 2 anni, i suoi genitori adottivi mi hanno cercato e me l’hanno portata qua. Mi sono emozionato tanto, ora sono suo zio, diciamo…” Ci racconta di Fuocoammare, il film di Gianfranco Rosi che ha fatto conoscere la storia di Lampedusa a tutto il mondo, della sanità sull’isola che è di alta qualità, con una guardia medica che funziona H24, 20 branche specialistiche che si alternano settimanalmente, un anestesista e un radiologo sempre presenti, l’elisoccorso, il suo orgoglio, sempre pronto a partire in 10 minuti per trasferire i malati urgenti a Palermo o in qualsiasi altro ospedale della Sicilia. Gli chiedo della sala parto, che sull’isola non c’è. Lui s’infervora: “Per fortuna! Meno male che non c’è. Sapete cosa significa una sala parto? Significa una banca del sangue, una camera operatoria, medici e infermieri, una neonatologia. Significa un piccolo ospedale. Ma qui i numeri dei parti sono bassissimi! Se pensiamo che oggi stanno chiudendo in tutta Italia i punti nascita con meno di 500 parti l’anno, come possiamo pensare che a Lampedusa venga istituita una sala parto? Le donne di Lampedusa in prossimità del parto vengono trasferite a Palermo o ad Agrigento, anche con l’elicottero. Questo è il modo per garantire la migliore assistenza ad una donna che deve partorire. Non la sala parto a Lampedusa! Io sono ginecologo, vi pare che non vorrei far nascere un bambino? Qualche volta lo faccio, lo devo fare, per emergenza, e ogni volta è come se nascessi io, ma ogni volta mi raccomando alla Madonna di Porto Salvo. Finora sono stato fortunato. Ma queste sono delle emergenze, non la normalità. Sarebbe una follia!

Gli chiedo se si sente un uomo del Mediterraneo e che cosa pensa dell’idea di cui ci siamo fatti promotori circa un’Unione del Mediterraneo, gli Stati Uniti del Mediterraneo. “Sarebbe opportuno che l’Europa si svegliasse. Noi siamo un grande continente, e l’Europa è nata su valori sociali importantissimi: i diritti umani, la libertà, la dignità dell’uomo. E poi, certo, anche su valori economici. Però oggi i valori umani sono stati disattesi. Spero che l’Europa si riprenda e che faccia vedere al mondo il grande valore di questa unione di Paesi, perché io ci credo nell’Europa. L’Italia è campione del mondo della solidarietà. Fra 20-30 anni ci daranno ragione. Queste stragi sono una mattanza, una vergogna. Oggi sappiamo tutto. Tutto di quel che accade. Da 26 anni, lo sappiamo! Qual è la soluzione? Evitiamo di farli morire, prima, e poi parliamo del resto”.

Pietro Bartolo si accalora ancor più di fronte alle sue stesse parole. “Ah, io parlo chiaro. Le ho cantate a tutti, anche ai politici. A Salvini, a Belpietro, a tutti. Il principe dei diritti umani, il diritto alla vita, viene negato! Per evitare di farli morire, bisogna evitare di farli partire in quel modo. Come? Con i corridoi umanitari. Dicono che ci invaderanno. Bugia. Lo sapete quanti ne sono arrivati lo scorso anno? 180mila. È un’invasione? In Italia, lo scorso anno il calo demografico – mancate nascite, morti ed emigrazione giovanile – è stato di 170mila e rotti. Quelli che arrivano ci aiutano a mantenere lo stato sociale, a consentire che punti nascita, asili, scuole, ospedali rimangano aperti. Avete letto cosa ha detto l’INPS? I migranti hanno versato circa 8 miliardi di contributi. Quelli con contratto regolare hanno versato 8 miliardi di contributi allo Stato italiano. Non sono un problema, semmai un’opportunità!”

E i siriani, Pietro? “Loro sono quelli che soffrono di più. Vengono dal benessere, non conoscono la povertà. Sono ingegneri, medici, informatici. Partono con tutta la famiglia, a differenza degli africani che mandano avanti i giovani, le donne. I siriani partono con gli anziani. Nel 3° millennio non si possono vedere queste cose.”

Qual è il sogno di Pietro Bartolo? “Vorrei che mi dicessero che tutto questo finirà. Che potranno arrivare liberamente, entrare e uscire dal loro Paese come facciamo noi, senza bisogno di visti, senza dover scappare. Vi racconto di una bambina nigeriana di 9 anni, arrivata in Italia su un gommone – Sono venuta a cercare mia madre in Europa – Ma tu lo sai dov’è l’Europa? Sì, è questa. – mi ha detto indicando il porto. L’ho aiutata per 6 mesi; la madre l’abbiamo trovata quasi subito, era costretta a prostituirsi in Francia per ripagare il debito del viaggio. In quei 6 mesi di burocrazia, visti e permessi, quella bambina ha anche tentato il suicidio. Io mi sono vergognato, avevo la sensazione di prenderla in giro. Poi finalmente il ricongiungimento. Era stata violentata chissà quante volte, aveva attraversato il deserto, il Mediterraneo, l’Italia, la Francia, ma era partita per salvare sua madre, che non aveva mai visto. Aveva solo 9 anni. Non è giusto. È disumano che abbia dovuto aspettare 6 mesi a causa delle lentezze burocratiche. Mi chiedono in tanti: Come possiamo aiutare? Possiamo venire a Lampedusa a darti una mano? No, non ci venite qua, siamo già in tanti a fare. Aiutate chi potete lì dove siete. Anche un sorriso, anche una stretta di mano al barbone che vedete per strada è un aiuto. Significa riconoscere una persona, un uomo”.

Poi si rivolge a noi che lo stiamo ascoltando: “Voi state facendo una cosa grandiosa, e non lo state facendo per voi, lo state facendo per l’umanità. Ecco, se posso tornare alla domanda che mi hai fatto prima: se mi dicessero che tutto questo finirà in bene, io vorrei tornare a fare il medico. Vorrei cancellare tutto… Fuocoammare, i libri, i premi, tutto… perché non mi interessa niente, perché penso che tutti abbiamo il diritto di vivere in questo mondo alla stessa maniera, tutti abbiamo diritto al minimo indispensabile”.

Restiamo muti qualche secondo. Abbiamo gli occhi lucidi dall’emozione. Non dimenticheremo questo incontro. Non dimenticheremo le fotografie che subito dopo Pietro ci ha mostrato. Non dimenticheremo il suo grazie, la sua stretta di mano forte, calda, accogliente. “Continuate così, grazie per quello che state facendo”, ci dice prima di sbarcare. Grazie a te, Pietro.